Franco Pedrina

Liana Bortolon

Nato a Padova nel 1934, nutrito di colorismo Veneto e di cultura internazionale, nei suoi quadri recupera il paesaggio che l’informale aveva distrutto, e lo fa attraverso cicli successivi.
Un tempo c’era quello della sofora, pieno di reminescenze liberty, estetizzante; oggi attraverso quello dei gabbiani balenanti su fondi marini con il lampo delle bianche carcasse o delle ali. Un senso di morte pervade queste immagini, ma non senza la speranza di una redenzione. Nell’assoluto relativo di tanta pittura contemporanea, Pedrina propone il riscatto dell’umano.

(Motivazione della segnalazione di Liana Bortolon sul catalogo nazionale d’arte moderna Bolaffi, 1975)

 

Franco Pedrina: la natura è come una ferita

Non è la prima volta che Franco Pedrina espone a Milano nella galleria di colui che da sempre è stato il suo mercante, Giulio Bergamini. Ma dopo aver esplorato tutti gli aspetti del mondo naturale, e in particolare i boschi, le ceppaie, i tronchi rovinati dall’inverno e dall’uomo, si è dedicato per almeno un anno a esplorare la sua casa: un camino, i mazzi di fiori appesi a seccare, i prodotti dell’orto disposti sul tavolo di cucina. Il pittore, padovano di origine, è presentato in catalogo da Stefano Crespi.
Naturalmente ci sono alcuni boschi, grandi per le dimensioni e completamente innevati, dove si ergono i tronchi degli abeti e corrono, o appaiono quasi fantasmi, le forme di esseri viventi forse sperduti nel gelo dell’inverno. Pedrina non ha mai trascurato di dipingere proprio i vigneti contorti e divelti, i rami tagliati, i tronchi senza vita, in quella “corale mestizia” che accompagna e accentua il trascorrere del tempo. Si tratta in genere di oli, a volte tempre, che invitano a penetrare nei boschi deserti o popolati, forse, di fantasmi. Ma alcuni dipinti più recenti raffigurano l’interno della casa dove improvvisamente l’atmosfera gelida del mondo esterno si stempera alla fiamma del camino. Anche qui, in questi interni fragranti e deliziosi, il fondo è quasi sempre bianco, o comunque chiaro: la luce degli affetti, se vogliamo accettare le metafore care alla pittura di Pedrina, crea condizioni diverse e un maggior senso di calore. Non dimentichiamo che Pedrina è nato a Isola del Carturo, il luogo di Mantenga, e che ha compiuto la sua formazione artistica tra Venezia, Roma e Milano. Poiché passa regolarmente le vacanze nei luoghi delle origini, è là che attinge gli spunti agresti e allo stesso tempo simbolici che per singolari analogie hanno accostato le ali del gabbiano caduto ai rami tagliati dei suoi boschi e vigneti, come se il dolore del mondo fosse unico per tutti, vegetali, animali ed esseri umani.
Credo che da ragazzo Pedrina abbia amato molto Sutherland e ne abbia studiato a fondo i segreti, prima di cimentarsi con il cifrario delle analogie e delle metamorfosi. Non gli è ancora riuscito con i nudi, dice, «ho provato a inserire questi corpi di donna nel verde misterioso di una pianta come sognavo di scoprirli a quindici anni, quando avrei percorso anche cento chilometri apiedi, pur che succedesse. Ho provato a dipingerlo da solo, come un ceppo, o come se tornasse terra. Ho provatoa sfarlo con la luce, a scavarlo come un recipiente nel quale immergersi e riposare; mi restano sempre criche di una storia che non è mia». Forse una delle componenti di Pedrina è proprio l’insoddisfazione, che invece si placa quando percorre i boschi ed è ripreso dall’antico incanto.
Nelle prove venete di Andrea Zanzotto è detto acutamente lo strazio di una luce senza tempo, senza memoria, senza storia: «Perduta ogni forza d’invasione, la luce acquistava un enigmatico ed elegiaco pudore perdurava come una povera voce, comunicata e volta solo a se stesso». L’ambiguità delle forme in Franco Pedrina è un anelito che continuamente lo incalza, lo sospinge verso altre variazioni, altri ceppi, altri paesaggi, altre nature morte, eppure ogni volta si avverte che la sua pittura è una ferita nel respiro palpitante delle cose.

(su Grazia di marzo 1991 “le mostre della settimana”)

 

Famelico di boschi, di vigneti, di sterpaglie, ogni volta che Franco Pedrina ritorna dalle sue avventure estive porta con sé un nuovo raccolto di lavori e mi invita vederli, come le tempere mietute quest’anno a Portogruaro che potrebbero essere dipinte sul Montello o ai giardini pubblici di Milano, tante sono le indicazioni concettuali del suo ininterrotto rapporto con il mondo vegetale.
Le abbiamo sfogliate assieme, e Pedrina è così bravo a parlare della sua pittura, che le mie parole si sono limitate da principio a essere un commento delle sue. Eppure, passando da una tempera all’altra, a poco a poco si andava creando quell’universo lontano da ogni forma di naturalismo, mai impennato in verticale ma dischiuso come un alveo, un invito a penetrare insieme, vieni con me nei boschi, qui sta l’origine e la fine, e tutto intorno è un brulicare di colori, di forme, di memorie.
Quelle memorie di colori sono certamente frutto delle sue emozioni ma anche delle mie, delle vostre, l’indaco di un fiore, l’ocra di una zolla, il viola di un grappolo: chi non ha vissuto almeno una volta quegli incanti? Con Franco Pedrina si va a piedi tra fronde e radici, in cerca di aprire un sentiero là dove da tempo nessuno era passato, e comincia così un operazione emotiva che non è di archeologia ma di rinascita. Dalle profondità della dimenticanza emergono esperienze di vita comuni a chi ha vissuto un’infanzia libera, è quasi un risalire agli antenati.
Nello studio l’artista tiene appesi  certi girasoli, certi mazzi di erica, o certi melograni posati su un vassoio, tutti secchi e forse impolverati. Guardandoli, mi viene in mente il mito di della Donna Scheletro che rinasce sotto le carezze del suo pescatore, così come rinascono quei frutti rinsecchiti come le ossa che si ricoprono di carne quando li accarezza sulla tela con i suoi pennelli. Perché è proprio per amore che nasce la pittura di Pedrina, così accorta, così ritagliata, di una melanconia dolcissima.
Franco Pedrina bisogna conoscerlo. Estroverso e orgoglioso, coraggioso e difficile,in sintonia con le sue origini, nato cantastorie come quelli che frequentavano le veglie d’inverno e le vendemmiate nei paesi contadini, in realtà è un uomo di città, di cultura, di racconto colto. Il ragazzo cresciuto in campagna là dove aveva avuto origine il Mantegna, è fiorito intellettualmente a Venezia, Roma, Milano sempre con la sua impeccabile parlata veneta ricca di metafore, come un Andrea Zanzotto del colore.
Bisogna conoscerlo. Tutto pelle e ossa ma conviviale, lirico e spinoso, malinconico e lieto, non verrebbe a patti con nessuno, e ha ragione, se fare il pittore è il più bel mestiere del mondo purchè sia fatto come dice lui.
Commentando il su modo appassionato di operare, un critico ha scritto che i suoi quadri, dove brulicano tensioni vitali, umori che diventano colori, forme che diventano qualcosa d’altro, sono atti di appropriazione e anche, naturalmente, ri-creazioni e dunque metamorfosi. Albero, terra, donna, spazio, luce.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Due Pini, Roma, novembre-dicembre 1993)

 

 

 


Franco Pedrina 2008 - All rights reserved